Design Break: Intervista ad Andrea Branzi di Francesca Balena Arista
Ti promettiamo che torneremo presto per farti sognare.
Nel frattempo ti offriamo piacevoli letture sul nostro favoloso mondo.
Caro Andrea, se ti dico Superonda tu a cosa pensi?
Sorride
Penso che fu fatta a martellate. La prima Superonda, il prototipo, fu costruita la notte prima della mostra “Superarchitettura”. E fu fatta a martellate da Paolo Deganello fino alle tre di notte. Al piano di sopra del nostro studio di Villa Strozzi, a Firenze, dormiva la proprietaria dell’immobile, la contessa Gambinossi. All’inizio quindi stavamo attenti a non far rumore, per non svegliarla, ma poi alla fine… ricordo Paolo che tirava delle grandi martellate su questa Superonda di legno, diventata ormai un tamburo… una roba davvero estrema! Il prototipo era dipinto a mano con larghe strisce dai colori vivaci. E mentre si andava in macchina alla mostra di Pistoia con la nostra Superonda… ci superò a un tratto un camioncino, da cui cadde, direttamente sulla strada, un divano in stile.
Pensando al ruolo di demolizione dell’abitare borghese che un oggetto come la Superonda ha avuto, la caduta del divano in stile è un’immagine illuminante.
Già, come se fosse… un presagio.
Nel tuo libro Una generazione esagerata, tu dai una grande importanza a Superarchitettura, come evento germinale per il design radicale.
Sì, la Superarchitettura fu una sorta di bomba atomica, perché davvero liberò una grande energia fino ad allora repressa. Fu Natalini a invitarci a questa mostra organizzata a Pistoia nel 1966, in una improbabile galleria Jolly 2, che era in realtà un deposito di proprietà di un grossista di pesce. Il manifesto della mostra lo scrissero Paolo Deganello (per gli Archizoom) e Adolfo Natalini (il Superstudio non si era ancora formato).
Nelle foto storiche si vedono due prototipi del divano Superonda che occupano quasi per intero la piccola stanza.
Sì. In questa mostra improvvisata noi esponemmo progetti fatti apposta per l’occasione. C’era un ingresso variopinto, e poi questi prototipi colorati, in legno e cartone. La cosa che era più esplicita, e che la gente afferrava subito capendo che stava succedendo qualcosa di nuovo, di diverso, era la musica dei Rolling Stones, che noi usammo come colonna sonora della mostra. Effettivamente questa musica funzionava perfettamente per i nostri progetti che erano progetti pop. Tutto questo spiegava nella maniera più chiara quali erano i nostri riferimenti, del tutto estranei alle questioni del progetto.
La mostra inaugurò il 4 dicembre 1966, un mese dopo l’alluvione di Firenze. L’alluvione fu per voi un’altra suggestione fondamentale, e l’onda ne è certamente un simbolo.
È molto importante l’interpretazione data da Arata Isozaki, che mise in relazione mostra e alluvione… Per i giapponesi le grandi devastazioni — uragani, terremoti— fanno parte della storia, non vengono considerate come eventi eccezionali fuori dalla storia come per noi occidentali. Isozaki interpretò l’alluvione come una sorta di “tabula rasa” per noi liberatoria. L’unico industriale che venne a vedere la mostra Superarchitettura fu Sergio Cammilli, fondatore di Poltronova, che a proposito della Superonda disse: Questa si potrebbe provare a realizzarla con il poliuretano espanso.
E così è stato. Cammilli, che non era un industriale tradizionale ma aveva una formazione da artista, mise in produzione la Superonda. Che effetto facevano i vostri mobili al pubblico di allora?
Quando la Superonda venne pubblicata su Domus, nell’articolo scritto da Ettore Sottsass, fece subito una certa impressione. A questo proposito ricordo una cena in via San Leonardo con Ettore, la Nanda (Fernanda Pivano N.d.A.) e Piero Vignozzi pittore fiorentino con cui sono cresciuto. Preparammo la panzanella.
Entrambe le serie fotografiche esprimono perfettamente l’idea di un nuovo paesaggio domestico, più libero, lontano dal conformismo dell’epoca. A tal proposito, c’è un episodio particolare che vuoi raccontarci sulla Superonda?
Certamente. Quando la Superonda entrò in produzione seppi che c’era una persona a Milano che l’aveva comprata, l’unica, e decisi di andare a trovarla. Era il 1967. Arrivai in un negozio tutto vuoto e bianco, in Galleria Passarella. C’era una scala che portava al piano superiore e seduti sulla scala, in questo spazio vuoto, c’erano il proprietario con il direttore del negozio. Fu un incontro illuminante: era Elio Fiorucci. Fiorucci è stato un personaggio molto importante per il rinnovamento del gusto e della cultura milanese. Parlando con lui, già in quel primo incontro, imparai alcune cose sorprendenti, la più importante delle quali era che “la moda non si inventa perché esiste già”. Noi Archizoom, con Lucia Bartolini, avevamo fatto un progetto di “dressing design”, la moda era tra i nostri interessi. Fiorucci non si definiva uno “stilista” (non ha mai disegnato niente) ma piuttosto un editore. Aveva, infatti, due buyer che giravano ininterrottamente il mondo portando prodotti, informazioni e oggetti, non solo di abbigliamento. Il suo negozio era diventato il centro di una Milano che si riconosceva in una sorta di “liberi tutti”, eliminando le regole della moda per dare spazio alla libera identità individuale. Come facevamo noi nei nostri progetti di design. Nel 1975 progettammo insieme a Sottsass il primo negozio Fiorucci a New York.
Fiorucci è stato un grande personaggio. Ricordo di una tua conferenza con Michele De Lucchi, dove Fiorucci venne a sentirvi. Era in platea, nelle prime file, e intervenne in maniera molto affettuosa e partecipe. È bello sapere che è stato l’acquirente della prima Superonda.
Non solo. Fu proprio Fiorucci poi a proporci di trasferirci definitivamente da Firenze a Milano per dirigere, come consulenti responsabili, il nuovo Centro Design per la Montefibre del gruppo Montedison, mentre lui già dirigeva quello per la moda.