Design Break 12 — Dario Bartolini, Archizoom Associati: Fotografie alla Poltronova di Agliana
Poltronova Backstage.
Fortino Editions, 2016.
Curated by Francesca Balena Arista
www.fortinoeditions.com
www.garmentory.com
1967: per arrivare ad Agliana si andava in macchina, si passava da Prato, nella periferia delle fabbriche tessili: un viaggio che divenne presto consueto. Si partiva almeno in due se c’era da vedere un prototipo, da parlare col Cammilli per un progetto. Quando c’era un evento nello showroom o dovevo fare delle foto, si partiva in massa comprese le sorelle di Lucia e qualcuno dei loro giovani amici. Secondo la situazione e l’atmosfera prevista si portava anche qualche oggetto per disturbare la scena. Da poco avevo una Hasselblad con if 50mm e un 120mm —procurata col prezioso contributo della mamma —, un bel treppiede Schiansky che non usavo quasi mai cercando il solito equilibrio tra foto mosse, sottoesposte e accettabile profondità di campo. Numero di scatti in equilibrio tra economia e divertimento: i rimborsi erano difficili da ottenere.
Ci aspettava il professor Cammilli, spesso con tutta la famiglia, la gentile moglie, la sorella buona amministratrice e i bimbi, soprattutto la piccola Luisa assai fotogenica. Su richiesta, Vinicio tuttofare interveniva a rimediare problemi di impianto, di rottura, di sostituzione, spostamenti. Nella dignitosa mostra dei prodotti Poltronova era allestito un piccolo teatrino destinato alle foto, spesso addobbato con improbabili enormi fiori di carta crespa colorata. Qualche volta si sono portati i pezzi nel parco di Villa Strozzi dove c’era il nostro studio, oppure in via di Ricorboli, oppure ancora a casa di Massimo e Cristina che, giovani sposi, avevano una casa che si prestava a feste, libagioni e sala di posa.
Cercavo di produrre scatti dei nostri oggetti adatti a rappresentare il mondo per cui erano pensati e contemporaneamente degni di far parte di un catalogo per la vendita: non sempre facile combinazione. Una volta prodotti, gli oggetti non erano più nostri; ormai erano destinati a una vita propria, una vita possibilmente libera da schemi, o meglio, secondo gli schemi che intravedevamo, in un bipolarismo tra Le Corbusier — Mies van der Rohe — Olivetti e il Supermercato. Sì, il Supermercato, che era il modello vincente sulla realtà e l’inevitabile destino della città ’quello che la No-Stop City si preparava ad analizzare’. Due visioni accomunate da una fiducia nella libertà di azione degli individui: la prima dove il progetto era possibile e necessario, l’altra —la cosiddetta Civiltà Merceologica — dove il progetto è nelle cose e la libertà è lo spazio agito da ciascuno.
Nella mia personale visione ambedue le strade dovevano servire a rifiutare, provocare, sbeffeggiare, un odioso buongusto ipocrita e conformista. Il nostro nemico era “l’Imbottito” una specie di delirio ossessivo dove qualunque cretino si potesse sentire in trono; certo però che era un oggetto di sicura collocazione nel mercato del mobile. Due erano i modi di fotografare l’oggetto. Il più naturale per un architetto, vederlo come un’architettura, dal basso, poggiato al suolo, col grandangolo, un po’ monumentale, illuminista. L’altro, quello più sincero, dove ognuno poteva farne l’uso più opportuno. Come Ettore vedeva le sue ceramiche con l’occhio di un devoto indù, così io vedevo le cose da fotografare come un piacere dello stare insieme nel rifiuto del “salotto buono”. E allora facevano comparsa martelli, teste di cinghiali imbalsamate, improbabili palmette di plastica, casuali reperti non cercati; e insieme amiche e amici un po’ imbarazzati, ma non atteggiati in alcun modo. In pratica nessuna regia.