Ti promettiamo che torneremo presto per farti sognare.
Nel frattempo ti offriamo piacevoli letture sul nostro favoloso mondo.
Poltronova Backstage.
Fortino Editions, 2016.
A cura di Francesca Balena Arista
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Avevo gli stivali ai piedi, quelli di gomma di colore verde pallido, quando entrai la prima volta, fresco di alluvione, nella sede della Poltronova. Era un giorno, forse di gennaio o di febbraio, del 1967. Allora tutte le mie scarpe erano rimaste sotto la melma dell’Arno e quella era la più adatta delle calzature per frequentare una città nella quale erano frequenti, soprattutto nel mio quartiere, i residui di quell’evento. Un po’ mi vergognavo di avere quell’aspetto, l’unico fra i miei compagni in civili e decorosi abiti borghesi.
Era anche per questa ragione che sono poco presente nelle foto scattate all’epoca dai miei compagni, che nella giusta e giovanile ambizione di notorietà si facevano fare, insieme al nostro primo prodotto uscito dalla mano dell’industria: la Superonda. Penso alle foto del gruppo fatte nel parco di Villa Strozzi, nelle quali sono spesso assente, salvo le foto che consacrarono l’esistenza del gruppo, quelle davanti alla statua del Petrarca, la bambina del portiere al centro, nella quale sono avvolto in uno scuro mantello, prestato da mia moglie, e ritiro prudentemente i piedi per celare le scarpe, che non erano di vernice. “Venite in giacca nera, scarpe nere e cappello”: era l’ordine perentorio di Massimo; ma allora non avevo una giacca e tantomeno un cappello. In seguito, com’è naturale, il mio guardaroba si arricchì anche se mi era difficile dimenticare la mia origine, cioè di chi, figlio di operai e nato in periferia, era abituato a costumi contadini; tale era infatti l’estrazione di chi, lasciata la campagna, s’inurbava ai margini della città borghese.
I meglio nati dei miei compagni di scuola erano figli di bottegai e per loro la strada era precisa, fare i garzoni nell’esercizio familiare che avrebbero ereditato. lo non avevo scelta: o fare un mestiere qualsiasi o continuare gli studi, e per me che non avevo tradizioni familiari da rispettare, la strada era una sola: frequentare il classico, che mi era stato calorosamente sconsigliato e forse per quello mi decisi a farlo, ma apriva la strada a tutte le formazioni possibili a chi non aveva le idee chiare.
Lo feci, con non poche difficoltà, perché mi accorsi —fu la mia prima lezione di vivere civile — che l’estrazione familiare contava molto, e mi ricordo ancora il richiamo all’ordine della madre di un mio compagno di scuola, con cui avevo baruffato: “Ricordati che lui è figlio di avvocato e ha una posizione da rispettare, mentre tu…”. Ma sono le esperienze spiacevoli a spianare la strada della vita. Ma torniamo al punto che ci interessa, io e mia moglie frequentavamo una boutique indiana, che aggiustava abiti a loro modo e usava tessuti insoliti, l’ideale per chi non aveva tradizioni da rispettare. E li usavo nei casi in cui volevo ben figurare, come ad esempio nello stand alla XIV Triennale di Milano, nelle cui foto del gruppo compaio in quella guisa, che fu apprezzata anche da Ettore Sottsass, nostro principale amico e sponsor, che disse, con mia grande soddisfazione, che avevo un’aria molto professionale.
In altre occasioni, più informali, come le foto fatte al gruppo da Ugo Mulas, indosso un normale golf senza giacca — che non è mai stata il mio capo preferito — su pantaloni, ma non jeans, un capo che ho privilegiato solo per il lavoro fisico. Lo stesso accade nelle foto fatte da Gabriele Basilico per i prodotti Cassina, e in questo caso c’era una ragione in più da rispettare: avere lo stesso look degli operai del Centro Studi Cassina che avevano collaborato alla realizzazione dei prodotti presentati. E oggi, chi sono alla fine della mia carriera? Giudicate voi dalle foto che mi sono state fatte, insieme a Roberta Meloni, del Centro Studi Poltronova, nel suo studio.